Brand activism, consumer activism e marketing
Brand activism: le cause sociali entrano nell’universo delle aziende
Secondo il 75% dei millenial è importante che i brand da cui acquistano siano socialmente impegnati e il 91% di loro lascerebbe un vecchio brand in favore di uno associato a cause in cui credono: ecco che l’introduzione al brand activism.
Dati che parlano di un’evoluzione in corso: alle aziende non si chiede più solo di fornire un prodotto/servizio, ma di difendere gli stessi valori in cui crede il loro pubblico.
Infatti, in una società divisa da opinioni sempre più polarizzate e ossessionata dai social media, le persone non esitano a giudicare il coinvolgimento dei brand (o la mancanza di esso) nelle questioni sociali e politiche. E prendere posizione su importanti questioni sociali paga: compagnie come Netflix, Starbuks e Facebook hanno visto aumentare non solo le menzioni positive, ma anche le azioni in borsa, quando hanno iniziato ad esprimersi contro le ingiustizie sociali.
Brand activism: quando le aziende scendono in campo
Si parla di brand activism quando un’azienda prende posizione nei riguardi di un problema di natura politica, sociale, economica o ambientale.
In che modo le aziende si mettono effettivamente in gioco? Attraverso dichiarazioni pubbliche, donazioni a enti benefici, campagne pubblicitarie, interazioni social ecc.
Parte fondamentale di questo impegno è l’autenticità: una dichiarazione deve essere seguita dai fatti, e i fatti devono essere coerenti con l’identità e i valori del brand, o il rischio di essere etichettati come ipocriti opportunisti è dietro l’angolo.
Cosa c’è dietro questa ondata di attivismo “brandizzato”?
Come riassume un interessante articolo di Skyword, si tratta di una combinazione di fattori:
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- In un mondo dalle opinioni sempre più polarizzate, i brand sono trascinati nella discussione, volenti o nolenti.
- I responsabili della comunicazione hanno capito che è necessario dare ascolto a un pubblico sempre più attivista.
- Le aziende hanno capito che prendere una posizione migliora non solo l’immagine, ma anche i profitti.
Consumer activism: il pubblico non sta a guardare
Forti del potere dei social media e sempre più consapevoli delle questioni sociali e politiche mondiali, gli utenti possono velocemente organizzarsi e raggiungere una massa critica tale da fare pressioni nei confronti dei brand.
Si tratta del consumer activism, che può esprimersi su Twitter, Facebook, Instagram, ma anche con cortei, manifestazioni, boicottaggi amplificati dall’interconnessione degli stessi social e dal rilievo che ne danno i media tradizionali (tv, giornali, radio ecc).
Il ruolo dei social media nella formazione del consumer activism
A fine 2017, le pagine Facebook aziendali erano 65 milioni.
I profili business su Instagram sono al momento oltre 25 milioni e il 70,7% delle aziende prevede di usare la piattaforma per promuovere i propri prodotti/servizi nel 2018.
La presenza sui social assicura grande visibilità ma lascia le aziende vulnerabili agli attacchi degli utenti, che possono in ogni momento commentare in positivo o in negativo le loro attività.
E mantenersi neutrali? Non è una mossa lungimirante: i follower potrebbero interpretare il silenzio come ipocrisia, disinteresse verso le cause sociali, opportunismo.
Sempre più spesso il silenzio è letto come apatia morale: è più saggio identificare i propri valori, esprimersi in favore di cause che li rappresentano, prendere posizione contro gli eventi che ne sono in netto contrasto.
In conclusione, le aziende devono impegnarsi ad essere il più possibile etiche, pena la “gogna pubblica” su internet.
Una buona causa è una buona storia
Come dicevamo nell’articolo dedicato al passaggio dallo storytelling allo storydoing, le persone rifiutano sempre di più l’advertising tradizionale, tanto che si sta andando dal branding al debranding.
Un ulteriore risultato positivo del brand activism? Prendere posizione riguardo determinate cause sociali/politiche/ambientali racconta di per sé una storia, e questo fa percepire il brand come autentico. Poche persone credono ancora alle parole della pubblicità, ma cosa c’è di più sincero di una dimostrazione di tangibile empatia verso le minoranze, le questioni di genere, i problemi ambientali?
Inoltre, come vedevamo all’inizio dell’articolo, è la generazione dei millenial ad essere più progressista, consapevole ed esigente a livello sociale. E, se i brand cercano la lealtà dei millenial, devono allo stesso modo dimostrarsi impegnati socialmente.
Brand activism: epic fails
Race together, campagna Starbucks (2015)
La campagna “Race together” scatenò una bufera di reazioni negative quando fu lanciata, nel 2015.
Starbucks, nel tentativo di aprire una discussione sul problema del razzismo dopo la sparatoria in cui furono uccisi Eric Garner e Michael Brown, pensò di scrivere sui suoi bicchieri l’hashtag #racetogether. Se i clienti avessero chiesto spiegazioni, i baristi avrebbero dovuto coinvolgerli in una discussione sul tema del razzismo.
Milioni di persone lessero la campagna come una mossa opportunistica; altri si chiesero come un argomento così complesso potesse essere affrontato nell’ambiente caotico di uno Starbucks.
#racetogether fu talmente attaccato su Twitter che Corey duBrowa, Senior Vice President di Starbucks, dovette cancellare il proprio account.
“Are you beach-body ready?”, Protein World (2015)
Ricordate il putiferio scatenato quando, nella metropolitana di Londra, comparvero i cartelloni della campagna “Are you beach-body ready?” del brand Protein World?
Subito la rete indignò, accusò l’azienda di body shaming e di voler imporre alle donne modelli irraggiungibili. Numerosi cartelloni furono modificati con la frase “Everyone is beach body ready!”
Subito l’azienda di abbigliamento plus size Simply Be lanciò la campagna e l’hashtag “Every body is beach-body ready”, che incoraggiava le donne di ogni taglia a non porsi limiti: hai un corpo? Hai un costume da bagno? Bene, il tuo corpo è pronto per la spiaggia.
Live for Now, campagna Pepsi (2017)
Uno dei più colossali fallimenti degli ultimi anni è stata la pubblicità di Pepsi con protagonista Kendall Jenner.
“Live for Now”, accusato di banalizzare le tensioni politiche americane e il movimento Black Lives Matter, nonostante le scuse di Pepsi e della stessa Kendall Jenner ha scatenato talmente tante polemiche da dover essere velocemente ritirato.
La sua colpa? Volgarizzare temi controversi e complessi, presentare come eroina una celebrità associata a una vita di lusso e ricchezza, strumentalizzare i movimenti di protesta e trasformare il tutto in una grande festa di strada.
Ha ben riassunto il tutto Berenice King, figlia di Martin Luther King Jr che, in un tweet, ha scritto: “se solo mio padre avesse conosciuto il potere di Pepsi!”.
Brand activism: epic wins
“Worlds Apart”, campagna Heineken (2017)
Se Pepsi voleva maldestramente dire “discutiamo delle nostre differenze e troviamo un punto d’incontro”, Heineken ha espresso il concetto in modo molto più convincente nel video “Worlds Apart”, diventato subito virale.
In una stanza si incontrano persone con opinioni diametralmente opposte, che si trovano a dover collaborare per raggiungere un obiettivo comune. Un vero esperimento sociale che, a differenza di “Live for Now”, presenta cause attuali come il femminismo e l’identità di genere in modo da avviare una vera discussione.
“Is it ok for guys?”, campagna Axe (2017)
Axe si è distaccata nettamente dalla sua storica immagine machista con il video “Is it ok for guys?”.
Basato su ricerche reali effettuate su Google (“è ok per un uomo vestirsi di rosa, avere i capelli lunghi, avere paura?”), il video, che fa parte della campagna “Find your Magic”, vuole incoraggiare gli uomini ad abbandonare gli stereotipi più tossici legati alla mascolinità ed essere davvero loro stessi.
E le collaborazioni di Axe con progetti come Promundo, The Representation Project and Ditch the Label non fanno altro che rafforzare la credibilità della nuova direzione scelta dal brand.
“Fearless Girl”, State Street Global Advisors (2017)
La statua della “Fearless girl” che sfida il Charging Bull di Wall Street è diventata una delle immagini più iconiche del 2017.
Una combinazione di brand activism e guerrilla marketing che comunica la forza delle donne e si integra con una campagna promossa da State Street Global Advisors per omaggiare le donne in posizioni di potere e i risultati da esse ottenuti.